Alcuni nascono con la camicia altri, come lei, con il camice.
Nei primi anni del Novecento a Torino, come nel resto d’Italia, le donne iscritte all’università sono pochissime: a queste ultime era, infatti, concessa al massimo l’istruzione fino alle scuole superiori.
Rita Levi-Montalcini, che si dice abbia perso da bambina la sua balia a causa di un tumore, è forse per quello ancora più motivata a trovare la cura di questo male. Riesce con caparbietà a farsi ammettere alla Facoltà di Medicina e come da copione si ritrova unica “quota rosa” di tutto il corso.
A scombinare ulteriormente le carte in tavola arrivano, però, le leggi razziali (1938) che provano ancora una volta ad allontanarla dal suo obiettivo impedendo a tutti gli studenti di origine ebrea di frequentare qualsiasi facoltà. Seguendo la massima del filosofo Kant Sapere aude che possiamo tradurre come “abbi il coraggio di conoscere”, la giovane Rita recupera tutti i suoi libri e le sue ricerche e si chiude in casa per proseguire gli studi in autonomia. I Fascisti sono però vicini, ed è quindi costretta alla fuga in Belgio con l’aiuto di un suo professore. Ritorna in Italia solo quando anche il Belgio è ormai appannaggio dei Nazisti.
La sua fuga per il mondo non si arresta per svariati anni, ma nulla può fermare la sua volontà, neppure quell’atomo opaco del male per dirla in maniera Pascoliana. Costruisce da sé strumenti medici “itineranti”, che la accompagnano fedelmente in ogni spostamento.
La sua camera – ovunque essa sia collocata – non ha nulla da invidiare a un laboratorio.
Nel ‘47 si trasferisce negli Stati Uniti e prosegue le sue ricerche alla prestigiosa Washington University di St Louis nel Missouri.
È ormai consapevole che la sua strada è la neurobiologia.
Dopo essersi trasferita in Brasile, nel dicembre 1952 i suoi studi portano all’identificazione del fattore di crescita delle cellule nervose (Nerve Growth Factor, acronimo NGF).
A St. Louis nel 1953, insieme al biochimico Cohen ne effettua la prima caratterizzazione biochimica.
Questo lavoro le vale il premio Nobel per la Medicina nel 1986.
La sua carriera proficua e le sue ricerche proseguono fino alla morte, avvenuta nel 2012. A questo punto non è difficile intuire perché io l’abbia inserita tra le nostre #madaminturin.
Voglio concludere con un elogio alla ricerca, alle ricercatrici (ma anche ai ricercatori ovviamente) che lavorano per sconfiggere tutte quelle malattie che anche solo a nominarle mettono paura. In un periodo come questo, basta poco per comprendere quanto queste figure siano importanti e quanto fondamentale sia sostenere i loro studi.
Testo di Emilia Bifano