Animazione: la vera rivoluzione

Michele Marmo alterna l’impegno di animatore sociale e culturale a quello di formatore e a quello di imprenditore sociale di comunità. Noi lo abbiamo beccato proprio lì in mezzo, tra l’uno e l’altro, dopo il suo talk a Humans in Co, e ci siamo fatti raccontare qualcosa sul passato e soprattutto sul futuro dell’animazione.

[SPOILER: se avete pensato a un villaggio turistico, siete fuori strada].

ANIMAZIONE E RIVOLUZIONE

Quando si dice “animazione” il pensiero corre subito a Fiorello, ai villaggi turistici, a quel mondo lì. Oppure si pensa ai film di animazione.

Ma c’è un altro tipo di animazione, che ha una storia abbastanza lunga – più di 50 anni –  nata in un contesto socioculturale in cui il bisogno di affermare se stessi i propri diritti e cambiare la realtà era molto forte: un dopoguerra lungo e il boom economico, il cui slancio slancio rimaneva però impigliato nelle strutture istituzionali, che erano ancora quelle precedenti la guerra.

Soprattutto i giovani rivendicavano cambiamenti e affermazione di diritti: l’animazione di cui parlo si collocava in quello spazio.

C’è quindi una tradizione molto legata al lavoro sul territorio, nei quartieri, e all’emancipazione delle periferie, con cui i cittadini potessero riaffermare i propri diritti.

E poi c’è un’altra dimensione dell’animazione – un po’ più educativa – che si rivolge alla scuola, che invita a pensare a una didattica meno direttiva e più partecipativa ed espressiva.

In simili contesti le arti espressive e il gioco sono la via per penetrare le difese più razionali: d’altra parte, i bambini imparano giocando.

Nel gioco c’è una sorta di elemento regressivo che ci consente di liberarci delle strutture rigide che la personalità mette in campo.

Quest’anima è sempre stata presente nel concetto di animazione, anche in termini un po’ sovversivi: il giullare era in fondo quello che poteva permettersi di prendere in giro il re senza rischiare la morte.

 

 

C’è quindi questa dimensione un po’ trasgressiva dell’animazione, ma c’è anche una dimensione culturale politica, di impegno e di cambiamento della cultura, che ha una tradizione forte.

 

Ma essendo una disciplina senza un proprio statuto epistemologico, che ha sempre fatto riferimento ad altre discipline, si è sempre un po’ dispersa: la sua forza e la sua debolezza stanno tutte in questa sua lunga tradizione – conosciuta però, alla fine, solo nella cerchia di chi se ne occupa, chi lavora nel sociale.

UN GIOCO DI SQUADRA

Quella in cui siamo è una fase di rilancio forte dell’animazione, anche se non viene chiamata col suo nome: figure come quella del community manager, ad esempio, sono preoccupate di riattivare le risorse esistenti nella comunità.

A volte l’animazione, in quanto volta a riattivare e valorizzar

 

e queste risorse, è un po’ strumentalizzata dal settore pubblico perché mancano le quelle economiche.

Ma è anche vero che è come se ci fosse stata una deriva da parte di chi gestisce i servizi nell’istituzionalizzarli eccessivamente, per cui la malattia, i minori, anziani, giovani, sono spesso delegati agli specialisti: il rischio è che la comunità si senta deresponsabilizzata rispetto alla cura della propria parte.

 

L’animazione ritorna quindi come richiamo al cittadino a riprendersi il potere su questi temi.

Quindi spazi di coworking, esperienze di collaborazione, movimenti giovanili, stanno riprendendo tantissimo una pratica collaborativa fortemente animativa.

Anche i servizi e i sistemi di welfare stanno tornando in questo modo a rivalutare le risorse della comunità. Bisogna stimolare i cittadini a rispondere ai propri problemi.

ANIMAZIONE E INCUBATORI DI COMUNITÀ

Abbiamo bisogno di costruire incubatori di comunità. Tutti i luoghi dove le persone si incontrano ormai hanno bisogno di rilanciare questa dimensione: non dobbiamo chiuderci nei nostri recinti ma provare a immaginare interventi in luoghi non convenzionali.

Il vantaggio dell’animatore è che è meno categorizzante rispetto ad altre figure proprie dei servizi sociali, e ha chance più forti per agganciare persone che ai servizi sociali non si rivolgono.

La crisi del sistema di welfare ha fatto si che ci sia una fascia di popolazione, il ceto medio, che non ha nessuna intenzione di rivolgersi ai servizi sociali, pur avendone bisogno.

Ha bisogno di trovare luoghi più informali, con operatori capaci di ricostruire la domanda di assistenza in una maniera meno propria dei servizi sociali. Ci sono praterie sconfinate per un nuovo inizio.

COSA POSSO FARE IO?

L’invito che io faccio è una questione culturale: c’è bisogno di cambiare paradigmi.

Il cittadino può lavorare su di sé per non aumentare il risentimento, la rabbia, che se vogliamo è anche giustificata dalla delusione che viene da una serie di fattori.

Poi ci sono molte forme oggi di partecipazione anche molto leggera. Bisogna costruire le condizioni perché il singolo cittadino possa attivarsi senza dover per forza far parte di associazioni, fare tessere, senza fare un processo di burocratizzazione della generosità – che non è molto apprezzato.

C’è una disponibilità al volontariato dei cittadini che non passa attraverso le associazioni classiche, e quindi c’è bisogno di intercettare questa domanda: c’è grande spazio di manovra, basti pensare al riutilizzare spazi abbandonati, trasformati in beni comuni.

È un momento di crisi ma anche di grande potenzialità.

Basta rompere la frammentazione, per la quale cui ognuno pensa per sé.